Recensione del film Caro Evan Hansen, dall’omonimo musical.
Scommetto che chi non conosce il musical, da cui questo film è stato tratto, non conosca neanche il film, Caro Evan Hansen, uscito nelle sale il 2 dicembre e prodotto dalla Universal Picture. Scommetto e sono sono sicura di vincere.
Pochissima pubblicità e una permanenza nelle sale pari alla memoria di un lombrico. E quei pochi che l’hanno visto in Italia volevano uscire alla prima canzone.
Non mi piace scrivere recensioni negative, ma questa volta il mio è un irrefrenabile bisogno di raccontare la rabbia che mi ha mosso la visione di questo film: è stata davvero, per l’Italia, un’occasione mancata.
Andiamo con ordine.
Facciamo finta, per dire, anche se è molto vicino alla realtà, che lo spettatore medio si sieda in sala senza conoscere che il regista Stephen Chbosky, quello di Noi Siamo Infinito e Wonder, per intenderci, diriga questo film e senza conoscere che la scrittura per il grande schermo sia dell’autore dello spettacolo omonimo, Steven Levenson, un musical che in lingua originale suonava già meglio, Dear Evan Hansen (va bene che non sappiamo l’inglese, ma alcune paroline ce le potete anche lasciare, non siamo così messi male).
Quindi, mettiamo anche che nessuno sappia che quel musical meraviglioso abbia vinto un Tony Award, con musiche e testi realizzati dal duo vincitore di premio Oscar®, Grammy e Tony, Benj Pasek & Justin Paul (La La Land, The Greatest Showman e Dogfight). Mettiamo che questa sia roba per addetti ai lavori. Quindi, via. Non ci serve sapere.
Premesso che ho provato a prenotare un orario serale, decente, oltre a quello del mattino e del primissimo pomeriggio, non ho confermato subito, e dopo due ore la programmazione non era più disponibile. Sapete perchè? Zero biglietti venduti. Mettiamo e andiamo oltre, perchè voglio vederlo, e, dopo vari tentativi, trovo una programmazione disponibile e finalmente mi siedo in poltrona.
In sala siamo quattro gatti, non un modo di dire, quattro umani, in una multisala in provincia di Milano, la sera del 7 dicembre (il giorno dopo si dorme, si può fare tardi e uscire) e già mi voglio alzare quando mi appare Ben Platt. Si intende: nulla contro la sua interpretazione. Mettiamo che nessuno sappia che sia stato il meraviglioso Evan Hansen del palcoscenico di Broadway….ma quando? Dieci anni fa? Non ha più i diciassette anni del protagonista: da subito mi sembra di vedere il fratello maggiore di Evan, e già qualcosa non mi torna. Non è credibile il confronto con Zoe e Connor, non sembrano suoi coetanei!
É davvero un peccato, perchè la storia è meravigliosa, la tematica importante e il cast, accanto a lui, è stellare: Amy Adams, sei volte candidata all’Oscar®, c’è il Premio Oscar® Julianne Moore, che interpretano rispettivamente le due madri dei ragazzi, oltre a Kaitlyn Dever, Amandla Stenberg , Colton Ryan, Nik Dodani, DeMarius Copes e Danny Pino.
La tematica affrontata è quella della malattia mentale e del disagio giovanile che porta ai gesti estremi, come il suicidio, eppure se sul palco abbiamo applaudito un capolavoro coraggioso e delicato, qui le emozioni restano in superficie e non si coglie quella profondità che la storia poteva raccontare.
E se tutto si può narrare, il come lo si fa è differente. Per questo, è stata un’occasione mancata per veicolare una vicenda partita dal palcoscenico che poteva uscire dalla dimensione della “cultura di pochi” e diventare popolare.
Criticare le traduzioni è troppo facile: anche qui, mettiamo che lo spettatore non conosca le originali del musical, quelle vincitrici del Grammy, inclusi i brani simbolo“You Will Be Found,” “Waving Through a Window,” e la mitica “For Forever”. Ma anche semplicemente un ascolto profano, dice no, che non va bene quel suono, non c’è la metrica, non ci sta con le note e soprattutto non c’è poesia.
Se dicessi ai miei alunni di terza media di raccontarmi le emozioni struggenti di un ragazzo che vuole suicidarsi e invece si fa “solo” male, non accetterei mai un banale “Sono caduto e mi sono rotto il braccio”. É un’informazione che già tutti vediamo, fin dalla prima scena, quando Evan si presenta con il braccio fasciato. Dov’è il dolore di un ragazzo che si sente inadeguato, solo e invisibile al mondo?
Il doppiaggio: mettiamo che siamo abituati da anni a vedere i film tradotti e in questo caso il merito della traduzione è che si possa seguire meglio la vicenda e la tematica, ma credo che ci debba essere un raffinato lavoro di addattamento anche alle “labbra” dell’attore che si muovono… e se chiaramente dice “me”, in una canzone, e non si può sentire in italiano “io”. Sembra che le voci corrano in una dimensione parallela e distorta rispetto a quanto si vede.
Per non parlare di chi canta. Va bene, chi doppia gli attori in originale non è un cantante, ma Santi Numi, prendete un qualsiasi allievo di un’Accademia di Musical e fatelo cantare e recitare insieme! Esistono persone che lo sanno fare, anche in Italia, che sono capaci di cantare e recitare (e anche ballare! Tutto in un unico performer! Incredibile, vero?!) Non si può sentire il protagonista parlare e poi cambiare completamente voce quando canta: va bene che si tratta di un film sulla malattia mentale, ma qui il livello schizofrenico è notevole.
Come in editoria, prima che un film sia approvato, credo debba passare al vaglio di editor, correttori di bozze e team creativo, non so quali figure ci siano per il cinema, comunque immagino che vi siano degli step che valutiano la pellicola nel suo complesso e decidano di metterla sul mercato. Questi passaggi non li ha fatti nessuno per l’Italia?
Chi ha visto il film in lingua originale, avrà goduto di uno spettacolo migliore, ne sono certa!
Per la versione italiana, mi stupisco che la Universal Pictures non si sia accorta che non solo la ciambella non fosse proprio venuta con il buco, ma non era neanche lontanamente una torta di mele senza glutine della mamma di Connor!
É stata davvero un’occasione mancata, sprecata. Buttata alle ortiche. Un’occasione che poteva veicolare un capolavoro del musical a tutti, attraverso il linguaggio più universale e popolare del film.
Caro Evan Hansen lo vedranno in pochissimi e quella fastidiosa frase di chi non ama il musical e che si approccia ad un film musicale la sentiremo dopo dieci secondi: “Ma cantano ancora?” Eh sì, cantano, e non è armonioso sentirli.
Nella versione italiana, tutta la magia di quella storia così coraggiosa e intensa si è persa.
Davvero un’occasione mancata, che fa solo rabbia!